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Carissimi
… anche quest’anno l’approssimarsi delle Feste mi stimola a condividere
con Voi alcuni Pensieri.
Lo faccio leggendo con Voi alcuni brani che,proprio in questi giorni, ho
avuto modo di leggere e che hanno suscitato in me riflessioni e silenzi.
Ma prima … qualche parola sull’Osservatorio.
Come tutte le iniziative che nascono con lo spirito mosso dal credere in
un’Idea, anche l’Osservatorio ha avuto bisogno di un momento di
“silenzio” quasi come se ogni Persona, che ne faccia parte o che stia
riflettendo se merita aderire, abbia sentito la necessità di far
decantare, dentro di se, il senso di questa “impresa”.
Per chi come il sottoscritto vive di entusiasmi potrebbe sembrare una
pausa che prelude un “nulla di buono”, un “non avrà seguito” , un “molto
rumore per nulla” … non è così! Ogni evento ha bisogno di Tempo e di
Spazi di confronto e, questi, non sempre si accordano con gli impegni
delle Persone.
Mi sento, tuttavia, in dovere sottolineare che non siamo stati FERMI in
“contemplazione” delle proprie convinzioni o bloccati da personalismi:
alcuni colleghi si “sono dati decisamente da fare” impostando iniziative
e attività di Ricerca di alto livello scientifico a valenza sociale
creando una fattiva collaborazione tra l’Osservatorio e l’Università di
Modena e Reggio Emilia, il Dipartimento di Igiene e Sanità Pubblica
dell’Asl di Bologna e altre forze sociali.
A poco a poco il Pensiero prende forma …
Vi esorto, quindi, a “farvi sentire” a essere stimolo per Tutti noi nel
fare dell’Osservatorio un reale e capace interlocutore.
Questo è il mio Augurio, quello di continuare a credere che sono le
Persone che costruiscono un’Idea e che l’Osservatorio è la
rappresentazione reale di quella Comunità di Pratiche di cui oggi tanto
se ne parla ma poche, in verità, ne condividono il senso nel quotidiano.
Auguri a Tutti Voi e alle Persone che amate!
Gianluca FAVERO
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IL SENSO DEL
NATALE IN UN MONDO SENZA SENSO
Nell’attuale rincorsa a introdurre, a scadenze
regolari, vecchie e nuove occasioni di “festa” – ma sarebbe più appropriato dire
“opportunità di consumo” – il Natale conserva la sua peculiarità di ricorrenza
cristiana maggiormente sentita anche da chi cristiano non è. Non c’è da stupirsi
allora se alcuni, forse troppi, elementi che ormai caratterizzano il Natale
nella nostra società abbiano ben poco a che fare con il significato cristiano
della festa. Del resto, lo stesso Natale cristiano ebbe origine
dall’appropriazione da parte del cristianesimo, divenuto religione dell’impero,
della festa pagana del “Sole invitto” che si celebrava a Roma: era la festa
civile che affermava la rinascita della luce al cuore dell’inverno, il lento ma
irreversibile trionfo del sole sulle tenebre che sembravano averlo sconfitto. La
chiesa, uscita dalle catacombe e dalle persecuzioni, cominciò a pensare che
quella ricorrenza fosse il momento più indicato per annunciare a una società
pagana la novità del Vangelo di Gesù Cristo: una realtà piccola, quasi
insignificante, un evento quotidiano – come il sole che anticipa di qualche
minuto la sua levata o come un neonato che fa ricchi di gioia anche i genitori
più poveri – può essere il segno della speranza che rinasce, dell’orizzonte che
si illumina e riscalda per sciogliere la cappa di piombo del cielo chiuso sulle
vicende degli uomini. (…)
Ma ha ancora senso oggi parlare di un Natale di
gioia? Possiamo farlo in una società in cui la preoccupazione di chi non trova
più un posto libero per le vacanze si affianca a quella di chi ha perso il posto
di lavoro? Possiamo farlo in un mondo in cui c’è chi prepara cibi e bevande per
un banchetto di festa e chi ammassa armi e truppe per un’offensiva di morte?
Possiamo farlo quando ci sono persone che per libertà intendono l’imbarazzo
della scelta tra infinite opportunità e altre che non sono libere nemmeno di
esistere e di esprimere i loro sentimenti?
Forse non “possiamo”, ma dobbiamo farlo, perché è
una gioia a caro prezzo quella che il Natale ci invita a vivere: non la gioia
momentanea di qualche luminaria, di un pranzo con la famiglia e gli amici, di un
regalo che riesce ancora a stupire, ma la gioia sofferta di chi è consapevole
che la speranza o è per tutti oppure è mortificata, di chi sa che la pace non è
il deserto che si crea dopo la guerra ma verità, giustizia, perdono, amore,
libertà... Allora il Natale non sarà solo una festa di pochi che chiudono gli
occhi sul dolore di molti, ma la “celebrazione” di un’attesa ben più vasta di
ogni recinto privilegiato: sarà il barlume di una speranza che lenisce le
sofferenze e le angosce di tanti uomini e donne, sarà il pegno di una vita più
umana, una vita impregnata di relazioni autentiche e di rispetto dell’altro, una
vita ricca di senso, capace di esprimere in gesti e parole la bellezza e la
luce, echi di quella luce che brillò nel buio di Betlemme e che deve brillare
anche oggi in ogni luogo avvolto dalle tenebre del dolore e del non-senso.
(Enzo Bianchi, L’Unità, 24 dicembre 2002)
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Mani, in Afghanistan
Mani portate al cuore per augurare “Salam aleikum”, che la pace sia
con te, in segno di saluto.
Mani di uomini anziani indurite dal lavoro dei campi.
Mani di donne dipinte a disegni floreali con Hennea nero sui palmi, per
i giorni di festa e per i matrimoni.
Mani grasse e ricolme di anelli delle popolazioni dei nomadi Kuci.
Mani che si stringono per dimostrare amicizia e rispetto.
Mani che scrivono segni per me incomprensibili, e al contrario, cioè da
destra verso sinistra; (ma i numeri sono uguali!)
Mani ad indicare aerei ed elicotteri militari in volo.
Mani di bambini alzate in cielo a far girare gli aquiloni.
Mani tese con il bicchiere di “Chai” (tea) verde, con tanto zucchero,
nei momenti di pausa, seduti a chiacchierare, ad informarsi delle
rispettive famiglie, a chiedere come si vive nelle loro case ed a
riferire come si vive a casa mia.
Mani di macellai che sgozzano capre secondo il dettato islamico.
Mani rosse di freddo che trasportano secchi d’acqua.
Mani che spezzano e portano alla bocca il “naan” caldo (il pane afghano
non fermentato, piatto e rotondo o a forma di rombo)
Mani di soldati e poliziotti che imbracciano Kalashnikov.
Mani di madri che sorreggono figli.
Mani di ragazzine che afferrano la corda al collo della mucca o
dell’asino portati al pascolo.
Mani di scolari piene di libri (zaini e cartelle non ci sono o costano
troppo…)
Mani portate al volto e poi appoggiate a terra, durante la preghiera ad
Allah.
Mani che visitano Pazienti.
Mani di partorienti aggrappate al lettino accompagnate dal dolore della
nuova vita che arriva in questa terra.
Mani minuscole di neonati che si muovono nell’aria, cercando
istintivamente un appiglio, alla ricerca del seno che li nutrirà.
Mani in urgenza che afferrano laringoscopio, bisturi, fonendo,
agocannule, garze.
Le mie mani magre tagliate dai fili chirurgici tirati per stringere i
nodi di sutura.
Mani di bambini e di bambine che non ci sono piu’, portate via per
sempre da una mina.
(Giramondo Dicembre 14,
2009)
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